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(gennaio 2007)

Nonviolenza e protesta civile

Quanto segue non vuole essere una critica a priori per nessuno, né una presa di posizione in favore o contro nessuno.
Nessun uomo è totalmente buono o cattivo, in sé. Anche i peggiori tiranni sono stati descritti, nel privato, come ottimi padri di famiglia, premurosi, affettuosi e protettivi.
Spesso però la situazione in cui ci si trova condiziona pesantemente le scelte e le azioni del momento.
Prima di condannare bisogna sforzarsi di capire.

Quando la causa è motivante ed importante, il naturale impulso di chi in essa crede è di sostenerla con vigore. Fin qui nulla di male, anzi, che sia sempre garantita la libertà di opinione: se mai la storia del secolo appena concluso avesse insegnato qualcosa, ogni essere umano dotato di un minimo di onestà intellettuale non potrebbe essere di parere contrario. Purtroppo, invece, capita sovente che nelle posizioni di potere si trovi chi propende per la delegittimazione e l'annichilimento ad ogni costo delle voci contrarie al proprio credo, esacerbando volutamente lo scontro; ciò allo scopo di fornirsi di un ottimo alibi per non essere costretti a dialogare con chi manifesta il proprio dissenso, dipingendo questi ultimi come i provocatori di turno.
In troppe occasioni anche recenti, purtroppo, se ne sono avute prove. Ma il problema esiste, e va affrontato, ben al di là dell'onda emotiva scatenatasi dietro ai fatti più cruenti; bisogna ricordare ad esempio, e sono ricordi anche più tristi, che nel dopoguerra il sangue dei dimostranti è corso in più occasioni. Ciò impone di riflettere: ma non, si badi, sull'opportunità di scendere in piazza (diritto sacrosanto che deve essere sempre garantito), ma sui modi con cui farlo senza disordine alcuno. Nella presente pagina si vuole per l'appunto impostare una riflessione del genere.

Efficacia dell'azione nonviolenta

Contrariamente a quanto si vuol far credere, il servizio civile non è solo un aggregato di luoghi e di sinecure in cui in passato cercava di sistemarsi chi si imboscava per sfuggire al servizio militare. Ad onor del vero, spiace constatare come in un cupo recente passato l'Ufficio Leva sembrasse indulgere nel concedere la convenzione all'impiego degli obiettori prevalentemente ad enti "socialmente poco impegnati", mostrandosi per converso molto più rigoroso nei rapporti con i centri in cui si crea una vera cultura della non violenza e dell'obiezione di coscienza al militarismo - con intento evidente: dequalificare il servizio civile per darne una falsa immagine di inefficienza e irresponsabilità, nel contempo presentando la caserma come unica e sola sede legittima in cui svolgere un degno servizio al Paese. Nonostante questa prevedibile parzialità, è nata ed è presente una vera e propria rete di sensibilizzazione all'Azione di Difesa Nonviolenta, che raccoglie l'esigenza (diffusa in una consistente fetta dell'opinione pubblica) di sviluppare un modello di difesa e di comportamento che superi la logica dell'arma come deterrente.
La Difesa Popolare Nonviolenta non è solo un abile artifizio verbale per individui «deboli»; basti pensare agli accademici che ne hanno fatto oggetto di studi di alto valore, da Capitini a Papisca. E, a dispetto di chi crede solo nei muscoli e nelle armi, la storia insegna che l'azione nonviolenta ha la sua efficacia, se attuata secondo criteri adeguati; pochi lo ricordano, ma l'India di Mahatma Gandhi e del Pandit Nehru si sbarazzò dei colonialisti inglesi senza sparare un colpo. Dunque si tratta di concetti non privi di fondamento e di credibilità, che vanno senz'ombra di dubbio presi in considerazione, qualora si sia in animo di organizzare manifestazioni di protesta a tutti i livelli.
Anche il messaggio più nobile ed integerrimo perde di significato, se per affermarlo si ricorre a metodi violenti. Quando l'attenzione si sposta dal confronto ideologico e programmatico allo scontro fisico, è la sconfitta più totale per i manifestanti, il colpo definitivo alla credibilità e sostenibilità delle loro posizioni.

Formazione alla nonviolenza

Si suole spesso stuzzicare la sensibilità di chi si professa nonviolento con argomenti del tipo "Voglio proprio vedere se quando sei aggredito non reagisci", "Anche tu diventeresti violento se ti capitasse di assistere a violenze sui tuoi cari", "Non venirmi a dire che se la polizia carica rimani lì a prenderti manganellate" e altri luoghi comuni con cui lavarsi la coscienza per non ammettere la propria debolezza. Debolezza, e non altro, è pensare di aver bisogno delle armi per difendersi in caso di contesa, a tutti i livelli. Viceversa, è forza credere in se stessi e nella propria capacità di risolvere una situazione di apparente inferiorità, a fronte di una controparte armata e animata da intenti bellicosi.
Se si decide, poniamo, di scendere in piazza per esprimere la propria protesta, le sole armi di cui equipaggiarsi siano convinzione in se stessi, striscioni e cartelli su cui esporre i propri slogan (possibilmente coloriti, ma non al punto di essere lesivi di dignità alcuna...), ugole ben allenate per gridarli a ripetizione. Poi, va da sé che il potere contro cui ci si muove farà in modo di riaffermarsi; e la riaffermazione passa sovente attraverso la ricerca dello scontro. Il tafferuglio, in certi casi, è un comodo espediente per evitare il dialogo: si provoca una reazione violenta nel concentramento, sia cercando un pretesto che volendo prevenire taluni comportamenti "potenzialmente pericolosi" dei manifestanti, ed ecco la scusa per rompere le righe in modo brutale:
«Non c'erano più i presupposti per dialogare, lo avete visto anche voi. Si dicevano nonviolenti, ma in realtà si sono rivelati dei facinorosi».
E il gioco è fatto. La protesta fallisce, parte dell'opinione pubblica punta il dito sui pestaggi e sui motivi delle aggressioni, cerca affannosamente il colpevole ora da una parte ora dall'altra e dimentica il senso della protesta. Morale: tanto lavoro per nulla.
Dopo, a poco valgono le varie strumentalizzazioni dell'una o dell'altra parte politica. Inutile scandalizzarsi se gli agenti o i militi inviati a pattugliare il corteo sono reduci da turni sfibranti, o sono stati richiamati quando erano in permesso: queste nozioni, vecchie come il mondo, si insegnano nei primi venti minuti di un addestramento nonviolento - se agli agenti e ai militi in questione i manifestanti vengono presentati come i «colpevoli» del prolungamento del loro servizio, costoro svolgeranno con pure maggior convinzione il loro lavoro. Inutile anche puntare indici accusatori alle pattuglie presidianti, se ad un certo punto si agitano i manganelli senza che il motivo appaia evidente: il Teatro dell'Oppresso insegna che non sempre una buona idea è destinata ad avere successo in una situazione limite, e anche questo fa parte del bagaglio di un addestramento nonviolento: anche durante un semplice sit-in silenzioso può accadere un qualsivoglia imprevisto che scatena una reazione delle forze dell'ordine, tesa a scioglierlo.
Bisogna tener presente che gli agenti ed i militi non fanno che eseguire, più o meno coscienziosamente a seconda dell'individuo, le consegne che vengono loro impartite; se le strategie dei loro comandanti hanno dei punti deboli e si rivelano clamorosamente inefficaci, le responsabilità vanno individuate a livello di posti di comando, non certo fra chi è di pattuglia. La sola colpa che si può addossare agli operativi, eventualmente e sempre salvo acclarato accertamento delle responsabilità, è quella di un eccessivo trasporto nell'azione repressiva, sfogando la loro ira contro malcapitati non direttamente responsabili dei disordini provocati. Questo fa parte del gioco: chi va a manifestare deve essere consapevole di correre un certo rischio. Ma il gioco dei ruoli impone che non siano i manifestanti a scatenarsi contro chi è inviato a controllarli, né a creare situazioni in cui si ravvisino pericoli per l'ordine pubblico - con annesso tentativo di repressione, e varie code più o meno spiacevoli in termini di scontri fra le parti.
Il senso del messaggio è: se si vuol scendere in piazza, si sappia in partenza quali possono essere le conseguenze, e ci si prepari ad affrontarle. Comportarsi diversamente, rispondere alla violenza con la violenza, non porta nessun giovamento alla causa, perché a quel punto rende difficile agli occhi dello spettatore esterno giudicare serenamente dove stia la ragione, se nel guanto che impugna il manganello o in quello che regge la spranga.

No alla ricerca dello scontro

Ecco, allora, che diventa insostenibile reggere con cognizione di causa il gioco a chi si reca ad una manifestazione nonviolenta con tutte le intenzioni di tener testa alle forze dell'ordine. Nel caso particolare, la posizione del leader delle Tute Bianche a questo punto è paradossale: coglie perfettamente nel segno quando discute della degenerazione nei movimenti di protesta, ma che dire del suo movimento schierato in quella grottesca parodia di assetto antisommossa, a difesa delle zone occupate per le manifestazioni? Offre il fianco alle accuse di connivenza con gli estremisti neri - assoluta bestialità concettuale, eppure il fatto di esserseli trovati dalla stessa parte della barricata, in tal modo, gli si ritorce ideologicamente contro.
Il buonsenso impone di mettere in conto che una manifestazione possa, quale che sia il motivo, uscire dai binari di una sana protesta nonviolenta, e che ci si trovi a fronteggiare situazioni di scontro; è necessario essere preparati ad una tale evenienza, ma armarsi a propria volta significa (tra)scendere dal piano del confronto ideologico a quello, assai più svantaggioso, della violenza fine a se stessa.

Una protesta, per essere efficace, non può che essere puramente nonviolenta. Giusto e sacrosanto è adottare determinati acorgimenti per salvaguardare la propria incolumità quando si è nella piazza, ma giammai assumere comportamenti che possano fomentare il disordine. In tali frangenti, il disordine fa solamente il gioco dell'avversario, che solitamente è grande e grosso abbastanza e non ha bisogno di ulteriori vantaggi.

  • Alle pagine di Uno Spazio nella Rete